Un tuffo nel passato /2

Sicilia, ai confini del voto di scambio
(di Giovanni Valentini – da Repubblica – 10 aprile 1993)

Sulla strada da Palermo a Catania, nel suo giro elettorale per il referendum del 18 aprile, Mario Segni fa tappa a Capo d’ Orlando ed è festa grande nel paese che è diventato un simbolo della resistenza popolare alla mafia. Da qui, nell’ autunno del ‘ 90, partì la rivolta dei commercianti contro il racket delle estorsioni. E anche se fosse una “rivoluzione borghese”, come la definisce Fulvio Abbate nel libro “Un sogno fatto in Sicilia”, questo è stato comunque un esempio, un modello di protesta e riscossa civile oltre i confini dell’ isola, per tutto il Mezzogiorno assediato dalla criminalità organizzata…

A ricevere Segni, c’ è l’ ispiratore di quella rivolta, Tano Grasso, oggi deputato del Pds, impegnato a favore del Sì. “Le nostre esperienze sono parallele – ricorda nel saluto al leader referendario, sui gradini del Municipio – e ora convergono in direzione del rinnovamento”. La campagna per il 18 aprile assume così in questa terra il valore di una duplice sfida al vecchio potere politico e a quello mafioso, ai legami, agli intrecci, alle coperture e alle connivenze che hanno consentito alla Piovra di prosperare e di estendere i suoi tentacoli sulle altre regioni meridionali. Il centro del paese è presidiato da uno schieramento massiccio di carabinieri, poliziotti, vigili urbani. La gente scende in piazza per ascoltare Segni, vederlo da vicino, stringergli la mano. I più anziani e le donne si affacciano alle finestre o ai balconi. Il leader del 9 giugno non delude le attese. E’ venuto qui, come spiega lui stesso, per “lanciare un segnale di fiducia, di ottimismo e di speranza”. Parla da meridionale ad altri meridionali, da sardo ai siciliani. “L’ Italia non è finita. Voi avete avuto il coraggio di ribellarvi, di non rassegnarvi. Siete stati d’ esempio per tutti. Il riscatto del Sud è nelle vostre mani”. E conclude in crescendo con l’ invito a votare Sì, contro la mafia e contro la partitocrazia. E’ toccato Segni dalla visita e non lo nasconde al cronista. “Conoscevo Capo d’ Orlando a distanza – confida – ma è commovente incontrare questa gente di persona”. Tano Grasso lo guida in via Vittorio Veneto, la strada dello shopping, dove brulicano d’ estate i turisti e gli affari. Di negozio in negozio, Segni entra, saluta, si ferma a parlare con i commercianti protagonisti della rivolta antiracket. Un mazzo di fiori per l’ instancabile signora Vicki, un caffè e un agnello pasquale di pasta di mandorla per lui. All’ angolo con via Roma, c’ è il negozio di Tano Grasso, calzature e pelletteria: i genitori e il fratello accolgono l’ ospite e gli mettono ai piedi un paio di scarpe in gomma e camoscio dei Fratelli Rossetti, modello “Flexa”, numero 41 e mezzo, “per camminare e andare lontano”. Un cartello sul muro La processione si conclude nella sede dell’ Acio, l’ Associazione commercianti e imprenditori orlandini, uno stanzone spoglio che affaccia direttamente sulla strada. “Mafia: chi tace acconsente”, ammonisce un cartello sul muro. “Non ci deludete”, dice a nome degli associati il presidente Luigi Schifano, rivolto a Segni, Tano Grasso ed Enzo Bianco, l’ ex sindaco repubblicano di Catania, eletto proprio in questo collegio alla Camera. Qualcuno prende la parola per ripetere con solennità una frase che riassume l’ impegno di tutto il paese: “Non possiamo decidere come e quando morire, ma possiamo decidere come vivere”. Prima di rimontare in macchina, avvertito premurosamente dalla moglie, Segni fa in tempo ad ammirare lo spettacolo degli alberi sui marciapiedi con le arance appese ai rami. Racconta Salvatore Librizzi, responsabile del comitato locale per i referendum, assistente di Diritto amministrativo all’ università di Messina: “La rivolta dei commercianti di Capo d’ Orlando è stata una lotta di liberazione. Dopo l’ Acio, a Brolo s’ è costituita l’ Acib, a Sant’ Agata di Militello l’ Acis e così via in tutta la Sicilia. Qui l’ appuntamento del 18 aprile assume una valenza antimafia. Non a caso, all’ inizio della campagna per il referendum, in paese abbiamo raccolto duemila firme su ottomila e cinquecento votanti”. Alle porte di Capo d’ Orlando, di fronte a un mare verde e trasparente sul litorale di San Gregorio, l’ albergo-ristorante “La Tartaruga” di Sarino Damiano è sorvegliato ventiquattr’ ore su ventiquattro dalle forze dell’ ordine. Negli anni scorsi, era stato preso di mira dal racket, ma il proprietario s’ è opposto alle intimidazioni e ai ricatti, rifiutandosi di pagare il “pizzo”. A tavola, sulla via del ritorno a Catania, Enzo Bianco prova a spiegare con l’ aiuto di una carta geografica l’ effetto che la riforma elettorale può avere in Sicilia e quindi in tutto il Mezzogiorno, contro il voto di scambio, l’ intreccio tra politica e malaffare, il controllo delle cosche. Prendiamo una circoscrizione estesa come questa: Catania, Siracusa, Messina, Enna e Ragusa. Cinque province, due milioni e mezzo di elettori. Per andare dal paese più settentrionale a quello più meridionale, cioè da Santo Stefano di Camastra a Portopalo che si trova più a sud di Tunisi, occorrono oltre quattr’ ore di macchina. Dice Bianco: “A parte le spese per le campagne elettorali, qui vince chi ha una lobby alle spalle: il sindacato, i farmacisti, i mass media. E come si sa, da Napoli in giù, spesso lobby vuol dire clan, cosca, famiglia mafiosa”. E’ provato, del resto, che in Sicilia Cosa nostra influisce almeno sul 15 per cento del corpo elettorale, vale a dire circa mezzo milione di voti su quattro milioni di elettori. Con i collegi più piccoli imposti dal sistema maggioritario, al massimo centomila abitanti, si può sperare di ridurre anche questo potere di condizionamento o d’ infiltrazione dall’ esterno. Appena ridesignato alla carica di sindaco da uno schieramento trasversale denominato “Patto per Catania”, attraverso elezioni primarie che gli hanno attribuito più di tremila preferenze su cinquemila raccolte ai banchetti o sotto i tendoni in tutta la città, Enzo Bianco non ignora le obiezioni: “Il referendum del 18 aprile non è certo un’ assicurazione. Se la mafia ha un consenso sociale, evidentemente non c’ è sistema elettorale che possa eliminarlo. Sta di fatto che salta o viene fortemente ridimensionata la sua capacità di controllo. Con il sistema uninominale, le candidature diventano più trasparenti, più visibili. E tutti gli altri voti possono convergere su un nome alternativo. Gli stessi partiti sono più esposti e ciò li responsabilizza”. Contro il referendum, sullo stesso fronte del No, si ritrovano fianco a fianco la Rete e il Msi che in questa città sono particolarmente forti e radicati. In opposizione a Bianco, per le elezioni di giugno entrambi schierano due deputati alla carica di sindaco: rispettivamente, Claudio Fava, figlio del giornalista assassinato dalla mafia, ed Enzo Trantino, avvocato penalista, presidente della Giunta per le elezioni a Montecitorio. L’ uno e l’ altro sono impegnati perciò a doppio titolo nella campagna referendaria, preludio di quella amministrativa. “Per la prima volta – afferma Fava – Catania sente l’ ebbrezza della libertà. Questa è una città da liberare: dalla mafia, ma anche dal comitato d’ affari che la governa”. In sintonia con il ripensamento di Leoluca Orlando che ha portato alla scelta del No, il deputato della Rete contesta la riforma elettorale, applicando il discorso alla situazione politica locale. “A Catania, il sistema maggioritario significa regalare il consiglio comunale alla vecchia politica, agli apparati clientelari, alle facce di un potere ormai logorato. Diventa uno strumento pericoloso per il controllo del territorio e delle risorse”. Su questa linea, la Rete ha rotto i rapporti anche con quel mondo cattolico di base che aveva ispirato prima il movimento “Città insieme” e poi lo stesso “Patto per Catania”, sottoscritto dal Pds, dal Pri, dai Popolari per la riforma e dai Verdi. Spiega don Salvatore Resca, un prete impegnato e combattivo: “Il Patto è un modello, un’ anticipazione di quello che potrà accadere dopo il 18 aprile, attraverso nuove alleanze e aggregazioni. E’ necessario un catalizzatore per mettere insieme tutte le forze progressiste”. Dal suo osservatorio di direttore editoriale di “Telecolor”, la più grande emittente privata della regione, Nino Milazzo, un professionista che ha lasciato il giornalismo nazionale per tornare a lavorare nella propria città d’ origine, conferma: “Se a Catania s’ è formata una coscienza antimafia, il merito è innanzitutto loro”. Prestigio personale Forte di un prestigio personale che non appare intaccato dal fatto di essere il difensore del boss Nitto Santapaola, anche Trantino prevede che con il sistema maggioritario “si scateneranno ulteriormente le lobby, puntando senza rischi sul cavallo vincente”. Alla luce della sua esperienza di presidente della Giunta per le elezioni, il rappresentante del Msi sostiene che la preferenza unica non è servita finora a eliminare né i brogli né le cordate: “Non abbiamo guarito la febbre, ma soltanto spezzato il termometro”. Quanto all’ elezione del sindaco, Trantino è convinto che in futuro “il personaggio di rispetto potrà controllare i suffragi senza dispersioni e variabili all’ interno del Consiglio comunale”. A favore del Sì nella consultazione del 18 aprile, resta comunque il precedente che in occasioni analoghe Catania ha sempre dimostrato una spiccata mobilità elettorale, come all’ epoca del referendum sul divorzio e in quello del 9 giugno ‘ 91. C’ è chi attribuisce ironicamente questa tendenza al “rischio sismico” della città oppure chi ricorda in proposito che l’ aeroporto di Fontanarossa è il terzo scalo italiano. Battute a parte, Enzo Bianco propone un’ interpretazione più politica: “Quando il cittadino non è vincolato dal voto di scambio e si sente più libero dalle clientele o dalla difesa dei bisogni immediati, allora il suo diventa un voto d’ opinione o in qualche caso di protesta”. Se sarà così anche questa volta, Catania esprimerà attraverso le urne la voce di una Sicilia e di un Mezzogiorno che non vuole arrendersi al potere del malaffare, della violenza, della criminalità organizzata. Il referendum del 18 aprile, bianco nel Veneto bianco e rosso in Emilia, il referendum dei “padroni” e degli operai nella Torino industriale, qui potrà essere innanzitutto una risposta popolare all’ oppressione, un segnale di riscossa e di speranza. Qui, come in tutto il Sud, sarà un Sì alla legalità e alla democrazia, contro le mafie di ogni colore.